Le opere di Toyo Ito si sottraggono alla presa della critica in virtù dei paradossi che esprimono. All’origine di quanto Ito ha costruito o progettato, vi è il tentativo di liberare l’architettura dalla gravità e la denuncia dei conflitti che scandiscono la convivenza della forma con la pesantezza. Discende da questa opposizione l’insistita ricerca che Ito ha svolto sui materiali da costruzione impiegati nelle sue opere, a partire, perlomeno, dalla casa d’alluminio a Fujisawa-shi, Kanagawa del 1970-71 (ma all’uso di questo materiale egli è ritornato con la casa a Sakurajosui, Tokyo, del 1997-2000). Da allora, nel corso dei trent’anni trascorsi da questa prima esplorazione delle potenzialità dei materiali costruttivi non tradizionali (ma, è bene ricordarlo, si tratta di una strada più volte tentata nel corso del Novecento), la ricerca di Ito si è sviluppata sino a rendere esplicito che l’obiettivo da lui perseguito è quello di una radicale svuotamento di ciascuna delle caratteristiche che l’architettura ha tratto dalla tradizione da cui anch’egli ha preso le mosse.
Sin dalle opere degli anni settanta, infatti, Ito ha imposto al suo linguaggio una progressiva rarefazione. Mentre l’apparato linguistico si è venuto progressivamente riducendo alla semplice ma non ingenua dichiarazione delle valenze ottiche e tattili dei materiali impiegati senza commenti percepibili, la struttura delle costruzioni ha teso a perdere importanza e significato, al punto che molte delle opere di Ito possono essere studiate come una successione di variazioni sul tema del rivestimento. Se ciò è riscontrabile sin dagli anni 1970-1980, ancor più chiaramente queste variazioni divengono la cifra di opere più recenti. Nel complesso del parco agricolo di Oita (1995-2001), ad esempio, la copertura polimaterica è una maschera geometrica priva di struttura, mentre anche il progetto per la riconfigurazione del lungomare di Salonicco (1997), pur riguardando un fronte urbano esteso e complesso, prefigura una sorta di avvolgente rivestimento per l’intero prospetto della città.
Seguendo questo indirizzo di ricerca (e approfondendo così il confronto con i paradossi da essa prospettati), le opere di Ito finiscono per esaltare le valenze ottiche dei materiali e, al contempo, per ricorrere a forme sempre più libere. Gli impianti dei suoi progetti tendono ad assumere configurazioni sinuose e insinuanti, mentre i rivestimenti tradiscono le originarie geometrie di figure semplici e stereometricamente definite per prediligere curve complesse e configurazioni avvolgenti. Contemporaneamente, il conflitto tra la libertà della forma e la necessità della gravità viene dichiarato con maggior insistenza. Per questa ragione, Ito giunge a sospendere le sue costruzioni su vuoti virtuali, disegnando figure sembrano galleggiare nell’aria, sostenute dalla leggerezza dello spazio e dall’immaterialità degli involucri (si veda, ad esempio, il progetto del complesso per la Plaza di Morioka del 2000).
Ossessionata dalla leggerezza, l’architettura di Ito sembra rifuggire tutto ciò che può evocare gravità e appoggio. Anche gli spessori (da qui l’impiego spesso eterodosso o estenuato dei materiali di rivestimento, come nel caso del progetto per la “torre acrilica” di Hannover, del 1999) tendono a scomparire, apparendo come linee tese tra due punti, tra due estremi, mentre i prospetti assumono non di rado l’aspetto di velari, come nel caso dell’ospedale Cognacq-Jay a Parigi (1999 e seg.), oppure di veri e propri schermi vaporosi, opacizzati da molti effetti e comunque restii ad accettare l’ovvietà della trasparenza.
Le implicazioni di questa ricerca risultano con tutta evidenza nell’opera più significativa tra quelle concepite da Ito negli ultimi anni, la Mediateca di Sendai (1995-2001). La costruzione assomiglia ad un gigantesco acquario. Le pareti vetrate filtrano la luce all’interno, che pare invaso da un liquido variamente illuminato dai riflessi che le vetrate, insistentemente elaborate ed eloquentemente sospese e libere, lasciano filtrare all’interno. Qui l’imponente apparato strutturale subisce una metamorfosi inquietante, poiché le colonne composite in tralicci d’acciaio sono piegate lungo l’asse verticale e acquistano una non del tutto inattesa valenza naturalistica. A dispetto della loro conformazione i pilastri interni, se così è lecito dire, creano dei vuoti che tagliano tutto l’edificio e nel liquido luminoso che attraversano mimano la presenza di alghe marine, completando così l’immagine che di sé la costruzione intende comunicare. La metafora adottata non è oscura: ai filamenti fluttuanti nell’acquario Ito affida il compito di liberare definitivamente lo spazio da ogni immagine evocante la necessità, il bisogno, l’uso. All’interno di questo vuoto sospeso, tra scenari muti e attoniti, animati soltanto dalle metamorfosi strutturali che li attraversano, il vivere contemporaneo viene offerto come spettacolo congelato a coloro che qui nuotano tra i paradossi irrisolti che l’arbitrarietà mette in scena.
Toyo Ito (1941) si è laureato in architettura a Tokyo nel 1965. Dopo aver lavorato con Kiyonori Kikutake, ha iniziato la sua attività autonoma nel 1971, occupandosi soprattutto di edilizia residenziale. Dal 1990 ha partecipato ad alcuni importanti concorsi internazionali, tra i quali quelli per l’ampliamento del MoMA a New York e per il Caac a Roma. Insegnante in diverse università in Europa, Giappone e Stati Uniti, Ito ha partecipato a diverse mostre internazionali: Architectural Association, London; Moca, Los Angeles; Biennale di Venezia ecc.). Le opere di Ito vengono regolarmente presentate dalla principali riviste internazionali e sono state oggetto di diverse pubblicazioni monografiche.

 

 
 
 

 

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